Giornata mondiale della Sindrome di Down

Si celebra oggi 21 marzo il World Down Syndrome Day, la Giornata mondiale sulla Sindrome di Down giunta alla sua 11esima edizione. Il tema del 2016 è “vivere una vita ricca di relazioni sociali soddisfacenti grazie al supporto della comunità, della famiglia, degli amici, dei colleghi di lavoro”, dicendo “no” alla discriminazione e ai pregiudizi. CoorDown Onlus ha lanciato una campagna di sensibilizzazione attraverso il video How do you see me?, nel quale recita anche l’attrice Olivia Wilde. La protagonista è AnnaRose, una giovane ragazza con sindrome di Down che racconta la sua vita.

Il breve film è stato presentato oggi 21 marzo presentato alla Conferenza del World Down Syndrome Day dal titolo “My Friends, My Community” – The benefits of inclusive environments for today’s children and tomorrow’s adults”  a New York nel quartier generale dell’Onu.

La storia di AnnaRose

La vita di AnnaRose è piena di significato, ricca di opportunità, di amicizie e di affetto ma anche di sfide e momenti di difficoltà. Questa vita prende forma sullo schermo grazie all’attrice Olivia Wilde. La metafora intende stimolare una riflessione su come le persone con sindrome di Down vedano se stesse e su come siano spesso vittime di discriminazioni basate su preconcetti e aspettative stereotipate. «Con questo film vogliamo contribuire a un cambiamento culturale. Solo quando la disabilità sarà percepita come una delle sfaccettature della diversità si potrà davvero fare inclusione, riconoscendo l’unicità di ogni individuo. L’obiettivo è far volgere lo sguardo oltre gli stereotipi, costruire un nuovo immaginario collettivo e promuovere un’alfabetizzazione alla disabilità», spiega il presidente di CoorDown Onlus Sergio Silvestre.

La Giornata mondiale sulla sindrome di Down è un appuntamento internazionale, sancito ufficialmente anche da una risoluzione dell’Onu, nato per diffondere una maggiore consapevolezza sulla sindrome e per promuovere il rispetto e l’integrazione. La scelta della data del 21 marzo non è casuale: la sindrome di Down, detta anche Trisomia 21, è caratterizzata dalla presenza di un cromosoma in più (tre invece di due) nella coppia cromosomica numero 21 all’interno delle cellule. Si tratta della patologia cromosomica più frequente  che provoca rallentamento nella crescita, rende più difficile l’apprendimento e conferisce un aspetto particolare al volto. In Italia, ci sono circa 38.000 individui affetti.

Emmy, una su ottocento

Uno su mille ce fa, cantava Gianni Morandi. Ed è più o meno la situazione dei bambini Down in Danimarca, dove il 95% delle coppie, alla scoperta di un nascituro affetto da Trisomia 21, ricorre all’aborto. Una forma di razzismo prenatale per la verità presente anche in diversi altri Paesi, come per esempio l’Inghilterra e gli  Stati Uniti, ma che è andata accentuandosi drasticamente fra il 2004 ed il 2006, dopo le nuove misure governative danesi sui controlli prenatali (Cfr. BMJ, 2008;337:a2547). Morale: dei bimbi con anomalie genetiche, appena uno su 800 nasce. Gli altri invece vengono eliminati uno dopo l’altro, come si conviene sotto quell’inflessibile “cultura dello scarto” denunciata da Papa Francesco come uno dei mali del nostro tempo.

Però ogni tanto qualcuno sfugge ai pur affilatissimi ingranaggi dell’eugenetica e viene alla luce, forte come una verità ed inatteso come un imprevisto. E’ il caso della piccola Emmy, bambina affetta da Trisomia e venuta al mondo – si direbbe – per guastare i piani al micidiale anche se invisibile razzismo fetale, per portare a tutti il sorriso innocente e dolcissimo suoi e dei suoi migliaia di fratellini abortiti, che a differenza sua non ce l’hanno fatta. Oggi Emmy ha cinque anni, è la bionda protagonista di un fotoracconto ed ha già messo in subbuglio la comunità di Århus, quasi 320.000 abitanti, seconda città più popolosa della Danimarca ma nella quale è stata assai dura, raccontano i genitori, trovare un asilo che la accogliesse.

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Per forza: una volta che una società si orienta ad una certa idea di perfezione, basta una bambina come Emmy a sconvolgerla e, soprattutto, ad interrogarla. A chiedere con la sola forza dello sguardo, interpellando tutti, se poi vi sia davvero qualcosa di giusto, qualcosa di umano e di coerente nello scartare bambini come fossero arnesi difettosi anziché creature innocenti, errori e non volti di quella meraviglia che risponde al nome di amore, che non fa nessuna reale distinzione. Sta crescendo, la piccola Emmy. Ma non ci vuole molto a pronosticare che saranno quelli come lei i veri rivoluzionari del futuro, coloro che insegneranno ad una società che si crede sana la malattia dell’anima contratta inseguendo la perfezione dei corpi.

Le parole di una mamma di una bimba con la Sindrome di Down

Una mamma con un figlio con la Sindrome di Down, nel corso della sua vita, è costretta ad ascoltare tante frasi superficiali, a volte persino stupide, pronunciate magari da chi dovrebbe mostrarsi più sensibile nei confronti dei bambini con disabilità.

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Caroline Boudet, giornalista e mamma di una bimba con la Sindrome di Down, di ritorno da un appuntamento con il medico, presa dallo sconforto per un commento rivolto alla sua bambina ha deciso di condividere alcune osservazioni su Facebook.

Le parole contano

“Questa è la mia bambina: Louise, ha 4 mesi, due gambe, due braccia e un cromosoma in più. Per piacere quando incontrate Louise non chiedete alla sua mamma: “come hai fatto a non scoprirlo durante la gravidanza?” Magari l’hanno fatto e i genitori hanno deciso di tenere il bambino. Oppure non l’hanno fatto ed è già stato abbastanza sorprendente per loro, parlarne ancora, ancora e ancora. Tenete a mente che le mamme hanno la tendenza a sentirsi in colpa per qualsiasi cosa, così pure per un cromosoma a sorpresa. Vi lascio indovinare. Non dite alla sua mamma:  è la tua bambina, non importa com’è. No, è la mia bambina, punto. Inoltre “nonimportacom’è” è davvero un brutto nome. Preferirei chiamarla Louise. Non dire alla sua mamma: “dal momento che è una bimba Down, allora lei sarà…ecc..” No. Lei è una bambina di 4 mesi a cui è capitato di avere la Sindrome di Down. Questo non è ciò che è, è ciò che ha. Non direste: “è una bambina cancro”. Non dire: “sono come questo, sono come quello”. Hanno tutti le loro caratteristiche, il loro carattere, i loro gusti, la loro vita. Sono diversi tra di loro come voi lo siete con i vicini. So che se uno non lo sperimenta non pensa che le parole contino. Possono confortare o ferire. Quindi prestate attenzione, specialmente se siete un medico o un’infermiera. Di solito non rendo il mio stato “pubblico” su Facebook, ma con questo lo farò. Potete leggerlo e condividerlo come volete. Perché ci sono in Francia 500 nuove mamme di Louise che possono avere la giornata rovinata da quel genere di parole. Lo so che non vi è intenzione di ferire di proposito, ma dovete saperlo”.

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La Boudet sa che molte persone che pronunciano le frasi che lei ha riportato sono in realtà ben intenzionati e non sanno dire niente di meglio.

“Sei mesi fa ero una di queste persone. Non sapevo della Sindrome di Down prima che Louise nascesse. Magari ho detto anch’io quelle frasi senza rendermi conto di ferire le persone” osserva la donna “ora però so che le parole possono ferire o tirar su. Ho capito che dovevo spiegarlo alle persone. Non potevo semplicemente arrabbiarmi ma spiegare perché quelle parole sono nocive e perché le persone dovrebbero dire le cose in un altro modo”.

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La donna si è chiesta come mai anche tante persone che non hanno parenti con la Sindrome di Down hanno condiviso il suo post arrivando alla conclusione che questo era dovuto alla sua sincerità. “Forse perché l’ho scritto con il cuore, forse perché parla delle differenze, ci sono molte persone che sono diverse nella nostra società, quindi magari capita a tutti, o forse perché parla del mio amore di mamma verso mia figlia, o perché parla della colpa che ogni mamma prova”.

La Boudet ha detto di aver ricevuto centinaia di messaggi di sostegno, ma quello che le ha fatto più piacere appartiene a un medico che le ha scritto che il suo post l’ha indotto a usare un linguaggio più appropriato.

In tempi in cui ancora si discriminano i ragazzi con la Sindrome di Down perché sono lenti a fare il biglietto in stazione, le parole di questa mamma vanno diffuse perché si abbia maggior consapevolezza.

Da Renoir a Picasso, i ragazzi con sindrome di Down diventano… opere d’arte!

Soela Zani è una fotografa albanese specializzata in ritratti di bambini. Per il suo ultimo progetto ha riprodotto 18 capolavori dell’arte mondiale, coinvolgendo altrettanti ragazzi con sindrome di Down. Lo scopo? Rappresentare la disabilità con uno sguardo sorridente e ottimista, insegnando ad apprezzare le differenze e mostrando come ogni essere umano sia un’opera d’arte.

“La prima volta che ho conosciuto una persona con sindrome di Down – racconta l’artista – è stata intorno al 1987, 1988. Comunicava poco e soffriva per l’isolamento da parenti e amici, ma non faceva nessuna terapia comportamentale. A quel tempo queste cose erano tabù. Mi ricordo come persino la sua famiglia si vergognava della sua presenza”.

Da allora la società ha fatto indiscutibili passi avanti e la stessa Soela Zani ha partecipato a progetti di raccolta fondi per associazioni che si occupano di ragazzi con disabilità: “Com’è lavorare con i bambini con la sindrome di Down? Esattamente come lavorare con i bambini senza sindrome: sono ugualmente imprevedibili”.

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