Adolescenti: il Vangelo incontra il mondo

In ascolto del Vangelo

Morte e Risurrezione

 

TESTIMONIANZA

Anna, una vita riscattata

Quella di Suor Anna Nobili è una storia molto particolare. Lei è una donna che ha negli occhi e nel sorriso un pezzo di cielo. Con una croce pendente ed un foularino al collo messo lì a far funzione di scialle o di cappotto, Suor Anna si è lasciata alle spalle una vita fatta di battimani ma anche di umiliazioni, di successi mediatici e di un vagabondare senza meta, quando un contratto televisivo ma anche un bicchiere di vodka potevano bastare per sentirsi in giornata.

Quella di Suor Anna Nobili è una storia molto particolare. Lei è una donna che ha negli occhi e nel sorriso un pezzo di cielo. Con una croce pendente ed un foularino al collo messo lì a far funzione di scialle o di cappotto, Suor Anna si è lasciata alle spalle una vita fatta di battimani ma anche di umiliazioni, di successi mediatici e di un vagabondare senza meta, quando un contratto televisivo ma anche un bicchiere di vodka potevano bastare per sentirsi in giornata. Smarrita e fragile come un figlio prodigo del nostro tempo, così simile allo standard esistenziale di milioni di altri giovani, infelici perchè aridi, aridi perchè nessuno fa più la carità della verità. Suor Anna si racconta con le parole e con le mani. Le tiene spalancate con le dita divaricate. Non c’è nulla da contenere, ma tutto va gridato sopra i tetti, cominciando dalla tenerezza di Dio e dalla sua misericordia.

D – Quanti anni ha, suor Anna? E come è stata la sua infanzia?

R -Trentadue. Sono nata a Milano il 10 febbraio del 1970. Sono la prima di tre fratelli. Dopo di me ci sono due maschi di 31 e 29 anni . La mia infanzia è stata…così, così. Quando avevo quattro anni la mia famiglia si è trasferita a Monza e poi a Bisceglie, in Puglia, dove avevamo aperto un bar ristorante e dove sono rimasta fino a quando facevo la terza media. Ma a metà di quell’anno scolastico, i miei genitori si sono separati ed allora con la mamma e i fratelli sono andata a Milano. Quando i miei genitori si sono separati da un lato ero contenta, mentre dall’altro la vicenda mi ha lasciato dentro una profonda sofferenza e insicurezza. Ora però le cose sono notevolmente migliorate. Adesso ci si incontra insieme con i toni di una famiglia che si vuole sostanzialmente bene.

D – Torniamo a Milano, negli anni della sua adolescenza…

R – Quando ci siamo trasferiti a Milano, nella Parrocchia di Sant’ Eustogiorgio, vivevamo in quattro in cinquanta metri quadri. Sono stati anni difficilissimi. La parrocchia ci doveva aiutare per il cibo, per i vestiti e per le varie emergenze che si presentavano. Dopo la terza media avrei voluto continuare gli studi, sia perchè mi piaceva, sia perchè avevo buona volontà e tenacia. Ma incontravo grandissime difficoltà nella socializzazione. Ero come paralizzata dalla timidezza. Ricordo che fino all’età di quindici anni parlavo balbettando. Ricordo che insistetti molto per fare il liceo artistico. Sentivo che nell’ arte avrei raccontato molte cose che avevo dentro. Ma il sogno si infranse per l’assenza di mezzi economici e contro il bisogno di guadagnare subito per sostenere la famiglia. Due anni in uno, come operatrice d’ufficio, furono tutto il mio curriculum scolastico.

D – E poi il lavoro…

R – A dire il vero, era da tempo che avevo cominciato a sgobbare. Sia a Bisceglie che a Como ho sempre lavorato come cameriera o come.. cartello indicatore, nel senso che mi mettevano sulla strada, con un grembiulino e un tovagliolo sul braccio, per indicare che lì, in un ristorante si poteva mangiare. Non ho un buon ricordo di quel periodo. A parte il clima teso che si respirava in famiglia, ripenso al senso di abbandono e alla stanchezza che sperimentavo. Spesso, mi addormentavo sui tavoli ancora sporchi delle consumazioni. Nessuno che avesse tempo per badarmi o per seguirmi nelle mie difficoltà, magari solo per aiutarmi a fare i compiti. Poi…il lavoro. Di giorno vendevo cerotti porta a porta. La sera, facevo la lavapiatti in un ristorante. Poi, un giorno incontrai un architetto fotografo….

D – Il principe delle favole?

R – Non proprio, ma fu comunque una svolta. Lui cercava un’assistente per il suo studio e così, passai quattro anni come tuttofare in un ambiente più stimolante e professionalmente più preparato. Allora ero ”fidanzacchiata” con un ragazzo che, di li a poco, mi avrebbe fatto molto soffrire e poi lasciata. Lui era figlio di una famiglia borghese e un po’ bigotta. Conoscendo le mie origini e la mia situazione familiare, non ero certo la ragazza adatta per tanta nobiltà. Ma poi, la nostra storia finì anche per l’immaturità con cui si gestiscono queste cose ad una certa età. Si finisce per usarsi, senza rispettarsi per quello che si è. Da allora cominciai a ribellarmi. Mi resi conto che non potevo e non dovevo sempre subire. Ero come prigioniera delle mie paure, della mia timidezza, mi sentivo fragile, con un carattere debole, che mi condannava a sopportare e tacere. Ho cominciato a frequentare la danza da una coreografa di Canale 5, la signora Marta Levis. Finito un anno di apprendistato, mi sono licenziata dallo studio dell’architetto ed ho chiesto di andare a Stintino, in Sardegna, a fare l’animatrice turistica. All’inizio fu un po’ dura, anche perchè mi facevano fare cose che non volevo, come ballare pressochè nuda. Fu lì che cominciai a sbandare, ma anche a percepire nuove prospettive professionali. Chi mi vedeva ballare sosteneva che il mio destino era in televisiome. Devo ammettere che la danza mi ha aiutato tantissimo a superare complessi di inferiorità e paure. Per la prima volta nella mia vita, mi rendevo conto che anch’ io sapevo fare qualcosa di bello e che avevo dei valori. Dopo Stintino sono tornata a Milano, e li, mi si è ribaltata la vita. Senza lavoro, senza prospettive, ho cominciato a fare la cameriera nei pub. Fino alle due di notte al lavoro e poi via nelle discoteche, insieme ai PR che conoscevo e che mi facevano entrare gratis. A quei tempi. il mio rapporto con la Chiesa, era chiuso da anni e non mi ponevo certo problemi morali, né per lo stile di vita che conducevo, né per i contenuti cui ispirarmi. Dopo la Cresima, finito il tempo in cui si va in parrocchia quasi per un fatto anagrafico, avevo chiuso, smettendo di andare a Messa e vivendo come se Dio non esistesse.

D – Nell’ esperienza delle discoteche, è mai venuta a contatto con la droga?

R – Mi incuriosiva il fumo, lo spinello, perché mi dicevano che faceva star bene. L’ho provato, ma devo dire che mi ha proprio disgustato. La droga non mi è mai piaciuta. Le mie droghe erano la musica, il sesso e la danza. Qualche volta l’alcool. A parte la birra, che gira molto tra i giovani, una vodka o una tequila bum bum potevano bastare per farmi sentire in giornata. Ma devo ammettere che non ero una gran bevitrice. Il mio rapporto con gli uomini era uno scambio di merci, un usarsi, un coprire il vuoto che si ha dentro. La mia carriera è andata avanti con un contratto per un film per ragazzi con Cristina D’Avena e poi una collaborazione con Gigi Sabani, per un programma a Genova per le Colombiadi. Senza contare i concerti e altre manifestazioni pubbliche. Ho fatto anche la cubista. Ho cominciato il sabato e la domenica, come riempitivo, quando ero libera dalle prove di ballo e le registrazioni. Venti minuti sul cubo a ballare e venti a terra per tirare il fiato. Uno spettacolo di successo garantito, perché, a prescindere dalla bellezza del corpo che balla, lo scopo è quello di risvegliare la sensualità dei maschi. Sentivo sofferenza per la mia affettività ferita, perché cercavo un uomo che mi volesse bene, ma non lo trovavo. Alla fine sentivo che ero considerata solo per il mio corpo. Mi rendevo conto che potevo avere qualche vantaggio, ma del valore positivo del corpo, della bellezza, della sessualità, ero completamente all’oscuro. Io conoscevo un solo modo di vivere la vita e in quell’ orizzonte mi muovevo serena ed incosciente. Guadagnavo bene ma non erano cifre stratosferiche di cui si favoleggiava in certi ambienti, ma consentivano un ottimo tenore di vita. Ricordo che a quel tempo non avevo paura di nulla. Una volta, in Sardegna, feci l’autostop nell’interno della Barbagia. Mi ci volle poco a capire dove andasse aparare la storia, e me la cavai dicendo che ero un travestito. In quell’occasione le provai tutte. Simulai anche una voce maschile. Sta di fatto che quello mi scaricò di brutto, non so se per la pena o perché temesse che fossi veramente un travestito.

D – E quando arrivò la svolta nella sua vita?

R – Era il 1992. Mia madre si era riavvicinata alla Chiesa, attraverso l’incontro con il Parroco e la comunità cristiana di Sant’Eustorgio. Mia mamma mi veniva vicino, mentre mi truccavo, mentre mi osservavo davanti allo specchio e mi parlava di Dio, della preghiera. Mi faceva vedere il libro dei salmi. Io la mandavo via. Le dicevo: ma non vedi che è roba da vecchi? Lei mi parlava, mi raccontava della Messa e io le urlavo che la finisse di rompere. Credeva di migliorare la situazione, ma di fatto la peggiorava, acuiva la mia resistenza. Ma mia mamma non si è rassegnata ha scelto la strada silenziosa della preghiera, discreta ma incisiva. Per due anni ha pregato per la mia conversione, raccontando agli altri giovani della parrocchia la mia situazione, raccomandandomi alle loro preghiere. Finchè…finchè un giorno andando per la strada fui fermata da una ragazza che mi chiese se ero Anna la figlia di Rosa. Era una ragazza di una simpatia contagiosa, straodinaria. Mi invitò ad unirsi ad un pellegrinaggio della parrocchia per un pellegrinaggio al Santuario di Oropa. Mi unii più per simpatia che per motivi religiosi al pellegrinaggio. Una volta al santuario sentii che c’era una presenza. Mi colpì la semplicità e la gioia che esprimevano i giovani del gruppo. Io li guardavo in maniera defilata e mi dicevo: che belli che sono! Ma poi le mie serate, la mia danza e i miei uomini mi riportavano con i piedi per terra. Poi, dopo qualche mese, alla vigilia di Natale sentii il desiderio di andare in Chiesa da sola. Rigorosamente da sola, senza mia madre. Piansi, senza motivo, per tutta la Messa. Passata la mezzanotte e finita la cerimonia, avevo dato appuntamento ad un giornalista al quale avevo consegnato un mio album di foto, pregandolo di restituirmelo per quella sera. Invece di fermarsi sotto casa, il giornalista mi portò fuori Milano. Chilometri e chilometri, finchè arrivammo in una immensa villa, in aperta campagna. Lì propose…mi disse che mi avrebbe comprato una casa, una Ferrari. Sarebbe bastato che io fossi stata carina. Forse per la prima volta mi accorsi di avere una coscienza che chiedeva coerenza. Ero appena uscita da Messa, come potevo prestarmi a cose del genere? Lui per convincermi mi disse: Facciamoci almeno una pista di coca. E aprendomi un book di modelle, me le mostrò una ad una e mi disse: vedi queste, se prima non dai loro una pista di coca, di starci insieme non se ne parla neanche. Mi mise in mano un milione in contanti. Io glieli buttai in aria come coriandoli. Allora capii che qualcosa di forte si era risvegliato dentro di me. Da quell’ episodio passò un altro anno, esattamente il Natale dopo. Anche allora piansi. Poi cominciai ad andare con ritmo più frequente ed ogni volta sentivo questo pianto liberatorio, che mi usciva dal profondo, mentre avvertivo sempre più forte il senso di una presenza, che andava oltre la materia. Ricordo il prete che nelle omelie aveva una frase costante, che pronunciava con voce limpida, scandita e quasi urlata. Diceva: Dio ti ama. Era come un ritornello, uno slogan. E io ogni volta che sentivo questa frase scoppiavo a piangere. Era da una vita che io andavo alla ricerca di un po’ di amore, che ero alla ricerca dell’amore. Se questo prete diceva il vero, allora io ero… io ero arrivata. Avevo finalmente trovato quello che cercavo. Per recuperare il tempo perduto cominciai a frequentare tutti i corsi parrocchiali. Andai perfino al corso prematrimoniale, pur essendo senza ragazzo. Fui sconvolta dal tema della castità. Addirittura una coppia testimoniò sette anni di fidanzamento senza rapporti prematrimoniali. La cosa mi affascinava, ma ci credevo poco, restavo a bocca aperta, più incredula che altro. I ragazzi della parrocchia continuavano a dirmi: Dio è al centro della tua vita, tutto il resto ci gira intorno. Trovavo questo onestamente paradossale. Dopo tutta la fatica che avevo fatto per emergere, ero io il centro, la mia professionalità, la mia capacità di danzare, di richiamare gli occhi degli ammiratori sopra di me. Avevo l’impressione che fossero gli altri a vivermi addosso. Io non volevo sentire preti, canti, prediche, perché mi dava l’impressione che mi stessero manovrando. Dicevo: Dio, se ci sei, Tu fatti conoscere, Tu fatti sentire. Insomma, volevo scoprirlo da sola. Andai a fare un ritiro spirituale a Spello, nell’ eremo di Carlo Carretto. Pregai, feci lunghe meditazioni. Poi, una sera, nella piazza di Santa Chiara ad Assisi, contemplando il cielo e la natura intorno ebbi chiara la percezione che Dio è il Creatore e noi siamo le sue creature. Nel cuore mi sgorgò una gioia indescrivibile. Mi misi a danzare. Questa volta non per catturare gli uomini, ma per ringraziare e per lodare. Avevo trovato ciò che cercavo. Ricordo che andai davanti allo specchio e dissi: non sono più io. Pregando capii che cosa voleva dire noi siamo la casa di Dio, il tempio dello Spirito. Capii anche il senso profondo della Trasfigurazione, che avviene quando la forza di Dio prende il sopravvento dentro alle nostre coscienze e comincia a modificare la nostra identità. Tornai a ballare sui cubi e quella volta ebbi l’impressione di trovarmi all’inferno. I miei occhi, come se prima fossero stati velati dal male, mi misero di fronte, con drammatica lucidità, la situazione in cui ero finita. Quella sera vidi gli uomini e li vidi come ladri, che volevano rubare me stessa. Il miracolo più grande che mi ha fatto il Signore è stato la ricostruzione della mia interiorità, che era allo sfascio. I segni della mia conversione furono piccoli segnali, in quanto la mia scoperta di Cristo divenne anche una progressiva e costante adesione alla sua volontà. Forse, dopo la castità vi fu la scoperta della carità. Grazie anche a due mesi di volontariato che feci nelle Filippine, accanto a gente poverissima. Un’esperienza che mi ha insegnato valori straordinari. Non pensai subito di farmi suora, anche perché incontrai coppie cristiane che, col loro esempio, mi riconciliarono con l’amore umano, con la famiglia. Sentivo che era possibile vivere bene anche da sposati. Considero questa fase molto preziosa per la mia guarigione interiore. Avevo capito la bellezza dell’amore umano. Qualunque strada avessi scelto sarebbe stata positiva, gratificante, purché rappresentasse la volontà di Dio. Quattro anni fa ho conosciuto le Suore Operaie della Santa famiglia di Nazareth. E’ un istituto nato per far fronte alle emergenze del mondo operaio. Di loro mi ha colpito la semplicità, la gioia, il senso della relazione e la disponibilità verso gli altri.

D – Dopo quattro anni di convento, lei ha fatto i voti di povertà, obbedienza e castità. Cosa le hanno dato questi quattro anni di vita religiosa?

R – Mi hanno restituito Anna. Mi hanno dato Anna, quella che io avevo perduto . Anna è una bella persona, ma non in senso fisico. Anna è bella dentro.

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