Sulla sparatoria di Macerata

Il Vescovo Marconi: non c’è un solo colpevole

Dietro gli spari contro stranieri a Macerata «non c’è un solo colpevole, ci sono tante persone che hanno fatto meno il loro dovere». A dirlo è il vescovo di Macerata Nazzareno Marconi, il quale sottolinea che gesti folli, come quello avvenuto nella sua città, sono il frutto dei «toni avvelenati» e di una società nella quale ci sono persone che hanno fatto «meno» il loro dovere.

Macerata – ha aggiunto – è spaventata perché continuava a pensarsi isola felice. La verità è che si deve smettere di puntare il dito contro qualcuno. Qui ognuno ha fatto meno il suo dovere e un insieme di pietruzze è diventata massa». «È vero, qui abbiamo un problema con la droga – riconosce – ma non dimentichiamo che il problema non è solo chi smercia droga, sono anche gli acquirenti, che in grande maggioranza sono giovani e italiani». Prendersela esclusivamente con i pusher, com’è accaduto dopo l’atroce delitto di Pamela, ha favorito toni «che non erano e non sono quelli della nostra gente. E così si è montato un clima nazionale che ha prodotto questo nuovo dramma».

Bassetti (Cei): un disagio che nasce dalla paura

«L’episodio di Macerata è segno di un disagio sociale che nasce dall’insicurezza e dalla paura: non può trovare giustificazione alcuna, né essere sottovalutato nella sua oggettiva gravità». Così il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, commenta la notizia di Macerata. «La Giornata per la vita, che la Chiesa italiana celebra domenica – ricorda il cardinale – mentre ci china su quella nascente perché possa trovare accoglienza e sostegno, ci impone di operare per custodire la qualità della vita delle nostre città, favorendo inclusione e sicurezza».

Giuseppe Anzani Avvenire di domenica 4 febbraio 2018:

Paura e odio sono folle miccia. Il barile di polvere

Un pazzo, ci forziamo a dire; soltanto un pazzo può andare in giro in auto a sparare sui passanti neri per le vie di una città, bella e civile, come Macerata, come le tante città belle e civili delle nostre pacifiche province italiane. Un pazzo, ci forziamo a pensare, convinti che il ferimento insensato di quelle vittime non ha nulla di patriottico (nulla di umano), che la mascherata del tricolore sulle spalle, dopo il sangue sparso, non ha alcun senso se non quello di insozzare la bandiera, e che il saluto romano dai gradini del monumento ai caduti di guerra, terminato il raid, ha i connotati di un delirio.

Diciamo “pazzo” e tutto sembra quietarsi. Ci togliamo l’angoscia di far parte anche noi, seppur fuori dal palco, di questa macabra scena. Ci placa l’idea che la follia può esplodere senza segni premonitori, così sentirci spettatori impotenti di qualcosa di imprevedibile scaccia i tremendi quesiti sul perché, sul perché fra noi, proprio fra noi. E si potrebbe prolungare la riflessione sui segni folli che marchiano le stesse proiezioni simboliche dei gesti; il significato del sangue, la bandiera come veste liturgica identitaria, il saluto lanciato dalla tomba ideale degli eroi. Follie.

Eppure. Eppure questo accaduto racconta una logica a suo modo perversa e consequenziale. E sono i suoi simboli a combaciare. Il sangue per primo. E poi la bandiera e il monumentoIl sangue è il prezzo dell’odio; oppure della paura; o del rancore; o della vendetta. Nessuno può dire se ad agitare la furia dell’uomo sia stata la tragica morte della ragazza trovata a pezzi nella valigia, vicenda per la quale è incriminato un nigeriano e ancora si indaga la causa della morte. L’ipotesi di una vendetta non spiega i bersagli innocenti, se non innestandovi un rancore che si allarga a rappresaglia, oppure si fa reattivo a una paura indistinta verso la categoria minacciosa (i migranti, i neri, l’orda, le “razze inferiori” ), o si coagula in avversione, repulsione, fino all’odio che esplode.

Del pari, la bandiera e il monumento sono i simboli che nella laicità dello Stato hanno una venatura sacrale. Ma adoperarli a rinforzo dell’aggressione delittuosa contro gli stranieri che abitano fra noi è una sorta di laico sacrilegio. I monumenti ai caduti stanno in ogni Paese, e si assomigliano tutti, con le aquile e i leoni di bronzo e di pietra, ma con le madri che piangono il figlio morto riverso sulle ginocchia. La rispettiva gloria è il reciproco lutto. Viene il giorno in cui l’umanità dovrà capire che quelle pietre e quei bronzi, anzi – se fosse possibile – fusi in un’unica memoria globale delle guerre e dei morti sono le vestigia del rimorso del mondo. Il sacro che c’è in quelle tombe è il monito a non uccidere più.

Congetture, pensieri anche questi in attesa di luce. Ma lucido o folle che sia il disegno di spargere sangue “di gente nera”, il germe del male (la “criminogenesi” dicono gli specialisti, ma forse è qualcosa di più misterioso e profondo, che può dare a suggestioni ideologico-politiche epiloghi tragici) non nasce dal giorno alla notte portato dal vento. Si nutre dei succhi di veleno che inquinano la vita, le emozioni, i pensieri, le relazioni umane. Un conto è la preoccupazione ragionevole per i problemi (comprese le ansie e gli istintivi allarmi) suscitati nel mondo dalle migrazioni inarrestabili e dai nuovi orizzonti di integrazione culturale; un altro conto è che la paura sia alimentata, utilizzata per solleticare consensi politici, in Europa e da noi, settimana dopo settimana in una lunghissima campagna elettorale che non si è atteso lo scioglimento del Parlamento per avviare. La paura e il sospetto possono ingigantirsi sino a farli sentire nemici da scacciare, e – da folli – da odiare. Qualcuno dirà che le parole non uccidono; ma una predicazione ossessiva di essere invasi, usurpati, minacciati nella nostra identità “nativa” se non persino nella nostra “razza”, è un tizzone acceso ; e l’odio, alla lunga, è un barile di polvere.

 

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