Il pianeta si sta secolarizzando oppure no? La popolazione mondiale ha ancora fede? E che importanza attribuisce a Dio nella vita di tutti i giorni? Hanno l’ambizione di offrire una risposta a questi quesiti, le quaranta pagine «The Global God Divide», il nuovo report del Pew Research Center. Si tratta di una ricerca che, ora tramite contatto telefonico ora attraverso colloqui faccia a faccia, ha complessivamente interpellato nel 2019 oltre 38.000 persone provenienti da 34 Paesi – dall’India al Kenya, dagli Stati Uniti al Giappone – a loro volta rappresentativi dei sei Continenti.
Una vera e propria fotografia della religiosità globale, insomma. Che, lo diciamo subito, ha rilevato delle sorprese. Infatti, nonostante le previsioni – e forse gli auspici – di alcuni, il primo dato emerso da questo lavoro è che il mondo è tutt’ora credente, anzi molto credente. Lo prova il fatto che quasi una persona su due (45%), in conflitto con una visione intimistica e privatizzata del credo, riconosca apertis verbis la necessità, per vivere rettamente ed avere buoni valori, di credere in Dio. Una convinzione radicatissima in Paesi come l’islamica Indonesia e le cattoliche Filippine (96%), molto meno in Europa (22%) ma ben presente negli Stati Uniti (44%).
Un secondo dato emergente da «The Global God Divide» è quello della quota di popolazione mondiale secondo cui la religione e Dio rivestono un ruolo importante nella vita. Essa ammonta al 62%. Più bassa, ma non troppo, la quota di quanti attribuiscono importanza alla preghiera (53%). Ora, siccome quanti dichiarano apertamente importanza alla religione e alle preghiera sono notoriamente solo una parte del totale dei credenti, ciò che il Pew Research Center ci sta dicendo è che il mondo oggi non è religioso: è molto religioso. Lo aveva già osservando, basandosi su altri dati, il sociologo Rodney Stark nel suo The Triumph of Faith (2015), ma ora ne abbiamo una nuova conferma, alla faccia dei tanti profeti della secolarizzazione.
Tutto bene dunque? Non esattamente. Infatti, in questo rapporto globale della fede c’è anche qualche ombra. E riguarda, ahinoi, proprio l’Italia che, dati alla mano, emerge sostanzialmente come un Paese che sta voltando le spalle a Dio. Non si spiega, altrimenti, come appena il 30% dei nostri connazionali sostenga un legame tra la fede e la moralità, una percentuale più elevata di quella francese (15%) e inglese (20%) ma inferiore a quella tedesca (37%) e greca (53%); in ogni caso, un dato assai sconfortante per una nazione che nell’immaginario collettivo avrebbe nel cattolicesimo una delle propri tratti identitari.
Anche con riferimento alla quota di quanti dichiarano Dio importante nella loro vita, l’Italia sta letteralmente franando (-21% dal 1991 al 2019), mentre invece risultano in netta ripresa i Paesi dell’ex Urss come Russia (dal 40 al 46%: +16), Bulgaria (dal 41 al 55%: +14) e Ucraina (dal 50 al 62%: +12). Dati, questi ultimi, che certificano un aspetto di grande rilevanza, ossia la reversibilità della secolarizzazione e del laicismo. Basti qui ricordare che, sotto il regime sovietico, la frequenza ai luoghi di culto fosse irrilevante, dato che interessava meno del 5 per cento della popolazione. Eppure, oggi, in quegli stessi Paesi vissuti per decenni nella morsa dell’ateismo di Stato la religiosità sta rifiorendo.
Quanto all’Italia, per tornare a noi, il Pew Research Center conferma che siamo ormai, pure noi, terra di missione, da evangelizzare. Come si sia potuti arrivare a questo punto, evidentemente, è un interrogativo che dovrebbero porsi un po’ tutti i pastori, a partire da quelle gerarchie ecclesiastiche che da anni hanno preso, ammorbidendo i toni e smussando omelie ormai sterilizzate nella filantropia, a strizzare l’occhio alla cultura dominante. Ciò non toglie come ciascuno di noi, in realtà, sia chiamato ora ad evangelizzare: lo chiede il Vangelo e lo esige un popolo spiritualmente anestetizzato. Al contrario di un mondo che nel suo complesso, come abbiamo visto, resta molto religioso.