Manzoni non ha mai elevato odi all’Imperatore Napoleone quando questi è al colmo della sua gloria né tanto meno lo ha denigrato quando cade nella polvere. Solo quando gli giunge nella villa di Brusuglio, quaranta giorni più tardi, la notizia della morte di Napoleone, in tre giorni lo scrittore lombardo «scioglie all’urna un cantico/ che forse non morrà»: «Il cinque maggio».
Manzoni è colpito dalla scomparsa di un personaggio così grande, che ha posto ordine tra due età, tra Illuminismo e Romanticismo, un personaggio che ha dato il nome alla sua epoca, definita per l’appunto napoleonica, un uomo in cui, come direbbe Hegel, si è incarnato lo spirito della storia. Ma ancor più che dalla morte, Manzoni è colpito dalla notizia che Napoleone, che ha sempre assunto un atteggiamento fortemente anticlericale e anticattolico, si sia convertito prima di morire: «Mai più superba altezza si è inchinata al disonore del Golgota».
Quando scrive «Il cinque maggio» Manzoni non ha evidentemente potuto leggere le trascrizioni (pubblicate più tardi) delle conversazioni tenute dall’Imperatore con generali e medici, francesi e inglesi, credenti e miscredenti, che lo assistono durante i sei anni di esilio.
Nel 1840, meno di vent’anni dopo la morte, Robert-Antoine de Beauterne dà alle stampe la trascrizione dei discorsi sotto il titolo Sentiment de Napoléon sur le cristianisme, Conversations religieuses. Per curare il testo De Beauterne «entra in corrispondenza e si procura documenti e dichiarazioni dai testimoni privilegiati degli anni in esilio […]. L’autenticità dei documenti è comprovata dalla modalità di recupero e controllo delle affermazioni oltre che dal fatto che tutti i testimoni erano ancora in vita quando uscì il testo e avrebbero, quindi, potuto smentire affermazioni false. Inoltre, molti dei testimoni sono atei e materialisti, non certo cristiani e si mostrano in disaccordo con Napoleone. […]
Le conversazioni di Napoleone sono un’occasione unica per vedere in maniera diversa l’immagine tradizionale del grande Imperatore e comandante francese, per guardare all’interno del suo cuore, scoprire un personaggio decisamente diverso da quello della vulgata tradizionale. […]
Si è sempre scritto che Napoleone probabilmente si convertì in fin di vita. Dalle conversazioni risulta in realtà che Napoleone si è sempre considerato cristiano cattolico. Al medico personale O’Meara che vide Napoleone leggere il Nuovo Testamento e gli faceva notare che «correva voce che fosse miscredente» il generale replicò: «Non è vero, non sono mai stato ateo. Quando ero a capo del governo, appena ho potuto, ho tentato di ristabilire la religione, che è una grande consolazione per il credente, soprattutto negli ultimi istanti della sua vita». E nel 1817, quando il medico informava Napoleone che si era diffusa la voce che Napoleone fosse un cattolico romano, il generale replicava: «È vero, io credo ciò che crede la chiesa». Il dottor Antonmarchi ricorda nelle sue Memorie che Napoleone gli disse: «Io non sono né medico, né filosofo; io credo in Dio; sono un cristiano, cattolico, romano». Al contempo, rivolto all’abate Vignali, Napoleone disse: «Sono nato nella religione cattolica, voglio adempiere ai doveri che me ne derivano, e ricevere i conforti che essa fornisce ai suoi figli. Lei celebrerà tutti i giorni la santa Messa nella stanza accanto, ed esporrà il Santissimo Sacramento durante le quarantore. Dopo la mia morte, lei porrà l’altare dalla parte della mia testa, nella camera ardente, continuando a celebrare la Messa e tutte le cerimonie del rito cattolico, che lei terminerà solo quando sarò sepolto».
Nell’Isola di Sant’Elena si assiste ad un percorso di maturazione religiosa e di presa di consapevolezza della genialità del cristianesimo. Al generale Bertrand che gli chiede se abbia mai visto Dio Napoleone replica che anche il genio umano non si vede direttamente, ma si vede l’effetto «e da questo si risale alla causa, e si crede che questa causa esista, insomma che essa sia reale». Come quando nel folto della battaglia la situazione si volge al peggio e il generale Bertrand cerca consiglio nello sguardo dell’Imperatore per capire come agire, allo stesso modo tutto grida nel petto dell’uomo, c’è un istinto, una fede, una certezza, un grido che esce dal cuore. Napoleone arriva ad esclamare: «Io credo in Dio, a causa di ciò che vedo, e di ciò che sento». E ancora Napoleone chiede al generale Bertrand da dove vengano il genio, la creatività, l’intuito che tanto ammiriamo negli uomini: «Se ci sono tante differenze tra gli uomini, Qualcuno ha creato queste differenze, e questo Qualcuno non è né lei, né io […]. C’è un Essere Infinito in confronto al quale lei non è che un atomo; in confronto al quale anch’io Napoleone, con tutto il mio genio, sono niente […]. Io lo sento, questo Dio, … ne ho bisogno… credo in Lui». La concezione che l’uomo ha di Dio nasconde la visione che si ha dell’uomo stesso: «Cosa vuole che io abbia in comune con un uomo che non crede all’esistenza dell’anima, e che crede che l’uomo sia un mucchio di fango?».
Bellissime sono le conversazioni di Napoleone sull’evidenza e sulla realtà della divinità del Cristo. Il generale Bertrand non riusciva a credere che un uomo come Napoleone potesse davvero essere convinto della divinità del Cristo. Questi poteva forse essere il cuore più nobile, il legislatore più attento, ma non un Dio che si è fatto carne. Allora Napoleone gli confidò: «Io conosco gli uomini e le dico che Gesù non era un uomo. Gli spiriti superficiali vedono una somiglianza tra il Cristo e i fondatori di imperi, i conquistatori e le divinità delle altre religioni. Questa somiglianza non c’è: tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito […]. Lei, generale Bertrand, parla di Confucio, Zoroastro, Giove e Maometto. Ebbene, la differenza tra loro e Cristo è che tutto ciò che riguarda Cristo denuncia la natura divina, mentre tutto ciò che riguarda tutti gli altri denuncia la natura terrena […]. Cristo affida tutto il proprio messaggio alla propria morte: come può essere ciò l’invenzione di un uomo? Infatti, non lo è, ma è bensì un segno strano, una fiducia sovrumana, una realtà misteriosa. […] Ma l’impero di Cesare quanti anni è durato? Per quanto tempo Alessandro si è sostenuto sull’entusiasmo dei propri soldati? […] I popoli passano, i troni crollano ma la Chiesa resta. Allora, qual è la forza che tiene in piedi questa Chiesa assalita dall’oceano furioso della collera e del disprezzo del mondo? […] Il mio esercito ha già dimenticato me, mentre sono ancora in vita (…). Ecco qual è il potere di noi grandi uomini! Una sola sconfitta ci disintegra e le avversità si portano via tutti i nostri amici».
Napoleone ricorda ancora come il cristianesimo non si sia diffuso con la forza delle armi e dello sterminio; anzi, dopo San Pietro i primi 32 vescovi di Roma furono tutti martirizzati, senza alcuna eccezione. Diventare vescovo di Roma non significava assumere un potere particolare, ma testimoniare fino alla morte (martire) la buona novella.
(Fonte: www.tempi.it 19/01/2015 di Giovanni Fighera “Sull’evidenza di Dio e della divinità di Gesù Cristo. Sentiamo Napoleone”)
IL CINQUE MAGGIO
Alessandro Manzoni – 12 luglio
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sonito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al subito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
narrar sé stesso imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio,
e il celere ubbidir.
Ahi! Forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Golgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
PARAFRASI
Egli (Napoleone I) non è più. Come, dopo aver esalato l’ultimo respiro, il suo corpo mortale, ormai senza memoria, rimase immobile, separato da un così grande spirito vitale, così rimane il mondo, colpito, stordito dall’annunzio, ammutolito, pensando all’ultima ora dell’uomo del destino; e non sa quando l’orma di un piede mortale altrettanto grande tornerà a calpestare la sua polvere insanguinata. Il mio animo di poeta lo vide trionfante sul trono, e rimase in silenzio; e così fece anche quando, con sorte incalzante, cadde (dopo la sconfitta di Lipsia e l’esilio all’Elba), si risollevò (nei ‘Cento giorni’) e fu definitivamente sconfitto (a Waterloo e prigioniero a Sant’Elena), non unendo la sua voce a quelle di tanti altri: ora, immune da elogi servili e da vili insulti, si leva, commossa, per l’improvvisa scomparsa di una sì grande luce; ed eleva alla sua tomba un canto che forse durerà per sempre. Dalle Alpi (nella campagna d’Italia del 1796) alle piramidi (nella campagna d’Egitto del 1799), dal Manzanarre (fiume di Madrid: nella campagna di Spagna del 1808) al Reno (nelle campagne di Germania), le azioni fulminee di quell’uomo senza esitazioni seguivano immediatamente il suo improvviso apparire; agì impetuosamente da Scilla (in Calabria, dove giunse il suo dominio) al Tanai (il Don: nella campagna di Russia del 1912), da un mare (il Mediterraneo) a un altro mare (l’Atlantico). Si trattò di una gloria veritiera? La difficile sentenza (va lasciata) ai posteri; noi chiniamo il capo davanti al Sommo Creatore, che in lui volle lasciare una sì grande impronta della sua potenza creatrice. Egli sperimentò tutto: la tempestosa e trepida gioia di un grande disegno, l’insofferenza di un animo ribelle che obbedisce, ma pensa al potere, e lo raggiunge, e ottiene un premio che sarebbe stato una follia sperare; la gloria tanto più grande dopo il pericolo, la fuga e la vittoria, la reggia e l’esilio umiliante; due volte sconfitto, due volte vincitore. Egli si diede un nome (glorioso): due secoli (il XVIII e il XIX), contrapposti (tra conservazione e rivoluzione), gli si volsero sottomessi, come aspettando da lui il loro destino; egli impose il silenzio e sedette come arbitro giudicante. E poi scomparve, e finì la sua vita in ozio, in una così piccola isola (Sant’Elena), oggetto di immensa inimicizia e di rispetto profondo, di un odio implacabile e di un indomabile amore. Come sulla testa del naufrago incombe e grava l’onda su cui poco prima lo sguardo del misero scorreva in alto, cercando invano di avvistare lontani approdi, così su quell’anima scese il peso soverchiante dei ricordi! Oh, quante volte cominciò a scrivere per i posteri le sue vicende! E quante volte su quelle pagine, destinate all’immortalità, cadde la sua mano stanca! Quante volte, nel silenzioso tramonto di un giorno trascorso in un ozio forzato, abbassando gli occhi (che prima erano) saettanti, rimase con le braccia incrociate sul petto, e lo assalì il ricordo malinconico dei giorni passati! E ripensò agli accampamenti sempre spostati, alle trincee abbattute, allo scintillare delle armi dei drappelli e alle cariche della cavalleria, e agli ordini concitati e alla loro rapida esecuzione. Ah, forse per tanto dolore cadde il suo spirito affannato e si perse d’animo; ma dal cielo scese una forte mano divina, che pietosamente lo trasportò in un’aria più pura; e lo guidò, lungo i sentieri sempre fioriti della speranza, verso i campi eterni (del Paradiso), verso il premio (la beatitudine) che supera ogni desiderio umano, ove la gloria passata non è che silenzio e tenebre. Bella immortale, benefica Fede, abituata alle vere vittorie! Annovera anche questo tuo trionfo, rallegrati; perché nessun uomo più superbo si è mai chinato davanti all’infame croce del Calvario. Tu (o Fede), allontana dalle stanche spoglie di quest’uomo ogni parola malvagia: il Dio che abbatte e che risolleva, che fa soffrire e che consola, sul (suo) letto (di morte) abbandonato da tutti, è venuto a soffermarsi vicino a lui.