Testo tratto da “Le avventure di Pinocchio – Storia di un burattino” di Carlo Collodi
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’Omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, com’è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro? In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane passavano come tanti baleni.
— Oh! che bella vita! — diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.
— Vedi, dunque, se avevo ragione? — ripigliava quest’ultimo. — E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare!… Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori.
— È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: — Non praticare quella birba di Lucignolo, perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!…
— Povero maestro! — replicò l’altro tentennando il capo. — Lo so purtroppo che mi aveva a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli perdono!
— Anima grande! — disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi. Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di malumore. — E questa sorpresa quale fu?
— Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accòrse…
Indovinate un po’ di che cosa si accòrse? Si accòrse con suo grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando dové toccar con mano che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule. Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna, e la disperazione del povero Pinocchio!
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima.
Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava al piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:
— Che cos’hai, mio caro casigliano?
— Sono malato, Marmottina mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne
intendi tu del polso?
— Un pochino.
— Senti dunque se per caso avessi la febbre. —
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso a Pinocchio, gli disse
sospirando:
— Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!…
— Cioè?
— Tu hai una gran brutta febbre!
— E che febbre sarebbe?
— È la febbre del somaro.
— Non la capisco questa febbre! — rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.
— Allora te la spiegherò io — soggiunse la Marmottina. — Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più né un burattino, né un ragazzo…
— E che cosa sarò?
— Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.
— Oh! povero me! povero me! — gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e
tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
— Caro mio, — replicò la Marmottina per consolarlo — che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino.
Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri,le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
— Ma davvero è proprio così? — domandò singhiozzando il burattino.
— Pur troppo è così! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
— Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!…
— E chi è questo Lucignolo? — Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore… ma Lucignolo mi disse: — «Perché vuoi tu annoiarti a studiare? perché vuoi andare alla scuola?… Vieni piuttosto con me, nel Paese dei balocchi: lì non studieremo più; lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri.»
— E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
— Perché?… perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio… e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonata quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!… e a quest’ora non sarei più un burattino… ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n’è tanti! Oh!… ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!… —
… E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva la fisonomia tutta di latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel «Paese dei balocchi» perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiar mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e su i mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario. Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.