A 50 anni dal Concilio Vaticano II.
Intervista di RaiNews a Monsignor Luigi Bettazzi
10 / 10 / 2012 |
Quel grande evento, che cambiò la storia della Chiesa Cattolica, si aprì con il famoso discorso di Papa Giovanni XXII “Gaudet Mater Ecclesia” .
In quell’intervento c’è tutto il senso del Concilio voluto dal Papa.
Nello stesso discorso Roncalli si rivolse anche ai «profeti di sventura», gli esponenti della Curia più avversi all’idea di celebrare un Concilio:« Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa ».
Nella stessa sera il pontefice pronunciò inoltre il celebre “Discorso alla luna”.
Vogliamo ricordare questo straordinario avvenimento con un testimone importante: Monsignor Luigi Bettazzi.
Bettazzi è tra le figure più significative del cattolicesimo italiano. Vescovo emerito di Ivrea, ha partecipato al Concilio Vaticano II in quanto ausiliare del Cardinale Lercaro (uno dei quattro moderatori dell’assise conciliare). Per diversi anni è stato Presidente di Pax Christi. Nel 1976 scrisse una lettera a Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, che fece molto discutere l’opinione pubblica italiana.
Monsignor Bettazzi, Lei, in Italia, è tra i pochissimi testimoni viventi di quel grande evento che cambiò la storia della Chiesa Cattolica. Con che spirito, dati i tempi attuali della Chiesa, vive questo cinquantenario dell’inizio del Concilio? Con nostalgia?
Un pò di nostalgia per il fervore e l’entusiasmo che c’era allora, non solo dentro all’assemblea, ma soprattutto al di fuori, e anche con grande speranza perché se è vero quello che diceva padre Congar che se il grande concilio viene completamente capito e attuato solo dopo cinquant’anni, voglio sperare che l’anno della fede susciti davvero e porti di nuovo profondamente a capire e attuare questo Concilio II.
Veniamo al Concilio. Per Papa Giovanni XXIII, il Concilio, doveva essere una “nuova Pentecoste” per la Chiesa Cattolica. A vedere, oggi, certi comportamenti della gerarchia cattolica sembra “vincente” la linea dell’allora “minoranza” conciliare (quella più conservatrice). Per Lei?
È vero che per muovere secoli di atteggiamento dominante, in cui era la posizione del papa che era un re e doveva fare il re ci vuole un po’ di tempo anche perché il decentramento, la collegialità, la collaborazione dei vescovi non è sottrarre autorità ma dare autorevolezza al governo della Chiesa. Sicuramente il 68 e 69 hanno avuto delle eccedenze che hanno la sua portato a richiudersi, lo stesso Papa Benedetto fu scosso dalle rivoluzioni della facoltà di Tubinga. Voglio sperare che queste spinte portino dopo tanta prudenza ad una nuova apertura. Vediamo se questo sinodo di ottobre e l’anno della fede sia una vera Pentecoste, come la chiamava Papa Giovanni.
Torniamo, per un attimo, a Giovanni XXIII. Nell’ultima pagina, famosa, del Giornale dell’anima affermava, rispetto alle critiche reazionarie che avevano investito la sua enciclica Pacem in terris: “non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Le chiedo: è questo il profondo dinamismo delle riforme del Concilio?
Io penso di si, per esempio la Pacem in terris rappresenta una novità, perché per la prima volta un Papa non parla di questioni religiose rivolgendosi ai cattolici, ma di un grande valore umano, come la pace, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà. E questo poi ha spinto il concilio alla costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, la Chiesa presenta i valori cristiani a tutta l‘umanità, anche a coloro che non sono cristiani, perché, pur non diventando Chiesa, continuino a camminare verso il Regno di Dio, che è il mondo che si apre ai grandi valori, di cui Dio è il sommo e che si apre agli altri; la Chiesa deve essere fermento e lievito per tutta l’umanità, perché diventi migliore. Il grande valore dell’uomo, della famiglia e di ogni famiglia, della cultura e di ogni cultura, dell’economia e di ogni economia, i valori della fede, in cui il cristiano trova il motivo in più per essere un buon cittadino, un buon essere umano, come tutti dobbiamo essere.
Il Concilio, nei suoi documenti, ha esaltato il ruolo dei laici nella Chiesa. Questo, nell’immediato post-Concilio, ha portato in Italia, con alcuni limiti, ad un grande protagonismo laicale. Oggi, pare, invece assistere, nell’’ambito dei laici “impegnati”, ad una “rincorsa” a chi è più conformista nei confronti della gerarchia. E’ così?
Forse è vero che dopo tanti secoli clericali si fa fatica ad ammettere la corresponsabilità dei laici, la Chiesa richiama i principi, ma sono i laici che devono dare la loro testimonianza, la loro coerenza. Le mie diffidenze sono nate prima ancora che con la lettera a Berlinguer, con la lettera che avevo scritto al segretario della Democrazia cristiana, dopo Tangentopoli, quando il presidente della Democrazia cristiana aveva detto: “vi meravigliate che facciamo così? In politica tutti fanno così” No, allora non dire che sei cristiano: perché il cristiano deve portare in politica la traduzione della sua coerenza con il Vangelo nella onestà legalità nell’apertura nella solidarietà verso i più poveri e disagiati. Questa dovrebbe essere la testimonianza dei laici e come gerarchia dovremmo richiamarlo di più, e forse è una delle cose in cui il 50esimo del Concilio dovrebbe richiamare la priorità del popolo di Dio sulla gerarchia. Il primo testo della Chiesa era “Chiesa, gerarchia, fedeli”, i vescovi hanno voluto che fosse “Chiesa, popolo di Dio e gerarchia”.
C’è spazio, oggi nella Chiesa, per una fede “adulta”?
Credo che il richiamo a questi principi, al fatto che non sono stati profondamente attuati, voglio pensare che sia un’occasione per ripartire e attuare il concilio. Lo dice anche il Papa: La nuova evangelizzazione è l’attuazione del Concilio. L’occasione credo che sia buona e che abbiamo speranza: come il concilio è arrivato all’improvviso, se ognuno nella chiesa fa quello che può, quello che deve, credo ci possa essere questo rinnovamento profondo nell’attuazione del concilio.
Laicità e principi “non negoziabili”. Alla luce del Vaticano II come si dovrebbe sviluppare il rapporto tra questi due “poli”’?
Per me il grande principio non negoziabile è la solidarietà, e dovremmo far capire che contro l’aborto e l’eutanasia sono due forme di situazioni di solidarietà nei confronti del più debole, non siamo convincenti se difendiamo la vita all’inizio e alla fine e non nel suo corso: se non siamo contro la guerra, se non cerchiamo di favorire il lavoro per i giovani, la possibilità del matrimonio perché le situazioni sono tali che li scoraggiano, la difesa della vita all’inizio e alla fine non è convincente se non è difesa nel suo corso. Il vero principio non negoziabile è la solidarietà nei confronti dei più deboli e dei più poveri.
Allora cosa resta, oggi nella Chiesa cattolica, di quello spirito rinnovatore, la “Pentecoste” appunto, che animò i Padri conciliari?
Io dico “già e non ancora”, perché è vero che se guardiamo a prima del concilio, qualcosa si è fatto, si legge di più la Parola di Dio, e anche il fatto che si discuta di queste cose, prima non se ne sarebbe certo parlato; il non ancora è che questi principi devono essere portati fino in fondo, attuati nella loro profondità, il rischio è di leggere il concilio come fosse un testo di diritto, e si sa il diritto lo si interpreta e lo si applica al minimo, ecco questo testo deve essere interpretato al massimo. Voglio sperare che questo anno della fede possa portare più speranza.