L’arte incontra la Pasqua: incredulità di San Tommaso

L’OPERA
INCREDULITA’ DI SAN TOMMASO

MICHELANGELO MERISI DETTO IL CARAVAGGIO 1600/1601

 Bildergalerie di Potsdam (GERMANIA)

La tela fu dipinta da Caravaggio intorno al 1601 per il Marchese Vincenzo Giustiniani per la galleria di dipinti del suo Palazzo ed è un sopraporta, dipinto cioé in orizzontale a mezze figure di circa cm 150 di larghezza e cm 100 di altezza. La tela poi fu venduta varie volte nel corso dei secoli, ed infine, dopo ulteriori vicissitudini legate agli eventi della Seconda Guerra Mondiale, pervenne nell’attuale collezione della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam. Nel 2001 a Roma è stata proposta al pubblico italiano in una bellissima mostra dedicata alla ricostruzione dell’antica collezione Giustiniani.

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Il dipinto raffigura l’apostolo Tommaso mentre infila un dito nella ferita del costato con altri due apostoli che osservano la scena. Qualche commentatore ha voluto identificare i due personaggi (oltre a Gesù e Tommaso) negli apostoli Giovanni e Pietro, affermando così che nel quadro vi è l’immagine della Chiesa nei suoi vari aspetti. Pietro è la Chiesa istituzione. Giovanni è la Chiesa comunione.

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Le figure sono disposte in maniera tale da formare una croce o una spirale, con le tre teste degli apostoli incastrate l’una con l’altra. La luce proviene solo da sinistra e illumina la fronte corrugata dei tre uomini che osservano con attenzione e stupore la ferita. L’estremo realismo della scena scandalizzò non poco il committente marchese Vincenzo Giustiniani. Ma per immaginare l’effetto che questo quadro di Caravaggio fece nella Roma di 400 anni fa basti ricordare che del quadro si contano 24 copie e fra i copisti gente del calibro di Guercino e Rubens. In realtà il quadro appare di una semplicità assoluta e di una perfezione compositiva impeccabile: al centro della composizione i 4 personaggi le cui teste formano un rombo, suggeriscono la vita di una comunità sospesa fra fede e incredulità. L’asse orizzontale delle mani di Gesù e dell’apostolo che crede solo a ciò che vede, condensa in folgorante sintesi i dubbi e l’ostinazione dell’uomo con l’amore disponibile e paziente di Dio.

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La curvatura delle schiene degli apostoli e del fianco di Gesù li raccoglie in un arco quasi perfetto. Il fondo scuro e spoglio di ogni dettaglio superfluo, concentra l’attenzione sull’essenziale. A parte questa sapienza costruttiva, che cosa conferisce al quadro l’incredibile fascino che emana? La luce in primo luogo che, come sempre nei quadri del grande artista, gioca un ruolo unico facendo emergere i personaggi dall’oscurità: mentre il volto di Gesù rimane nella penombra, la luce permette di cogliere su quello degli apostoli compagni di Tommaso come “il dubbio fosse attecchito anche nei loro cuori, pur senza avere la sfrontatezza dell’incredulo”. In secondo luogo colpisce la mano di Gesù che afferra quella di Tommaso e la guida a frugare fin dentro la ferita quasi a fugare ogni dubbio: l’apostolo, spaccone e inquieto quando non c’è Gesù, si rivela timido e riluttante in sua presenza, tanto da dover essere aiutato dal Signore a compiere il gesto sfrontato della verifica.

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Infine Caravaggio con un colpo di genio avvicina la scena allo spettatore e mette l’episodio alla sua portata quasi a sottolineare che la cosa ci riguarda tutti e ognuno di noi;  quasi a invitare chi guarda ad entrare dentro la scena stessa fino a farsi co-protagonista. E siccome il Caravaggio è il pittore della realtà con questo bellissimo quadro riesce a farci capire che quello che lui vuol raccontare non è per niente fantastico o visionario, ma “l’accaduto, nient’altro che l’accaduto” (Roberto Longhi), perché il Vangelo prima ancora di essere dottrina o insegnamento è fatto, evento storicamente verificabile.

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In questo quadro Caravaggio ha una percezione così reale del fatto, da immaginare che l’invito verbale di Gesù all’apostolo avesse un suo naturale sviluppo nel gesto pieno di tenerezza del Risorto che prende e guida la mano di Tommaso. Gesù, il più luminoso di tutti, lui che la luce rende il più bello degli uomini, lui che ha il torace del più forte degli eroi, lui che ha fatto del lenzuolo funebre lo splendido vestito della festa, lui ha il volto in ombra. Dolcissimamente reclinato, ha il pudore di chi teme di dare l’impressione della rivincita. Non gli avevano creduto, erano scappati quando lui era stato arrestato. E non l’avevano mai seguito con convinzione nel suo ultimo salire a Gerusalemme. «Ora sono qui. Non abbiate paura!». Egli sa delle nostre terribili paure. Egli sa delle nostre diffidenze. Anche di quelle nei confronti di Dio. Vederli arrivare lì, lì dove Dio si rivela, lì dove toglie il velo del tempio, lì dove rivela il suo amore indicando una ferita, lo rende quasi timoroso. Qui voleva in fondo portarli ogni volta che parlava loro del Regno e ogni volta che rimetteva in piedi qualcuno ammalato o peccatore! Resta uno scandalo questa ferita mortale. Ma i discepoli devono guardarla a lungo. Non possono rituffarsi nell’idea di un Dio impassibile, di un Dio che non soffre l’avventura umana, di un Dio che è dalla parte dei bravi, dei forti, dei fortunati. Non possono coprirgli la ferita e vergognarsi di essa.

 Nessuno dei tre apostoli alza la testa in direzione della luce: la Risurrezione non è da guardare con gli occhi, ma è da vivere sulla pelle…. I protagonisti non sono inquadrati a distanza nella sala, teatro dell’episodio. Sono a portata immediata di sguardo. Per di più sono ad altezza dell’osservatore, per cui chiunque sia di fronte a quella tela diventa il quinto personaggio della scena, come fosse un terzo apostolo, che ha bisogno anche lui di conoscere la verità e quindi di credere: anche lui si trova a chinare lo sguardo, incredulo e stupito, sul centro dell’evento.

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Un altro elemento è la mano di Gesù che prende quella di Tommaso e la guida verso la ferita. Iconograficamente non è una novità, perché già Dürer in una sua famosa incisione aveva rappresentato così l’episodio, andando quasi al di là del racconto evangelico. Ma in Dürer quel gesto si perdeva nella miriade di particolari. Qui invece è proprio il centro della scena: Caravaggio ha una percezione così reale del fatto da immaginare che l’invito verbale di Gesù a Tommaso avesse un suo naturale sviluppo in quel gesto così pieno di tenerezza.

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Incoraggiato da Gesù, che gli ha letto nel cuore, Tommaso può liberare la sua curiosità. Così il dito non si limita a sfiorare la ferita, ma vi entra dentro come a voler eliminare definitivamente ogni ombra di dubbio.  Eccoci così arrivati al fulcro del quadro, al particolare su cui Caravaggio fa convergere tutti gli altri, occhio dello spettatore compreso. Il dito di Tommaso tocca un uomo vivo, s’addentra nella carne viva: la semplicità geniale di Caravaggio spazza via, quasi con brutalità, ogni connotato visionario dalla scena.

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E lo sguardo sgranato e teso dell’apostolo sotto la fronte aggrottata segue il dito come se avesse calcolato che il riscontro di due sensi è meglio di uno.

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  E la conferma viene dagli altri due apostoli. Quello al centro è lo stesso modello usato nella Crocefissione di san Pietro e come Nicodemo nella Deposizione della Vaticana. Non hanno avuto la sfrontatezza di Tommaso, ma si vede benissimo dai rispettivi sguardi che il dubbio era attecchito anche nel loro cuore: Gesù era risorto davvero con il suo corpo o quello che avevano davanti era un fantasma? Così i loro occhi fremono nell’attesa: altro che preoccuparsi di rimproverare Tommaso per la sua incredulità.

 Caravaggio, insomma, indovina tutte le dinamiche umane della scena. Non lascia scampo a ipotesi alternative, e declina il suo quadro al tempo presente. Come infatti gli era accaduto nella Vocazione di Matteo, veste i protagonisti della vicenda con abiti contemporanei, mentre lascia Cristo con un mantello. È un corto circuito quasi impercettibile che gli serve per dare una verità ancora più diretta e comprensibile all’episodio raccontato: l’episodio accadde quel giorno di tanti secoli prima in Palestina, ma proprio perché realmente accaduto può essere riscontrabile, toccabile con mano, anche oggi.

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