La vicenda di DJ Fabo: spunti di riflessione

La vicenda di DJ Fabo ha scosso le nostre coscienze,  entro ciascuno di noi si è fatta posto una profonda tristezza che non ha bisogno del clamore mediatico, di tanto frastuono. C’è bisogno di silenzio, preghiera e di riflessioni pacate che vadano oltre la speculazione.  Vicende come queste rimandano ad un cammino nella ricerca del senso, del valore della vita e come possiamo ricondurre entro questo significato l’esperienza del dolore e della morte.

In mezzo a tanto rumore forse alcuni pensieri ci possono aiutare.

Il dolore, scriverne con pudore

di Maurizio Patriciello  – Avvenire martedì 28 febbraio 2017

Fabo, innanzitutto grazie. Te lo dico perché credo che puoi sentirmi ancora. Grazie perché costringi tanti a riflettere su ciò che volentieri fingiamo di ignorare: la sofferenza umana, il suo peso, la sua grazia, il suo mistero. Come ogni essere umano, anche tu, fratello, sei unico, irripetibile, originale. Un altro Fabo non nascerà mai più. La vita è bella ma terribilmente fragile. Stupenda ma anche tanto faticosa. La battaglia per vivere la affrontiamo fin dal grembo materno. Siamo nati grazie alla misericordia dei nostri genitori ai quali mai smetteremo di dire grazie. È così. Chi crede può dire: Dio ha voluto così, avrebbe potuto fare diversamente, ma ha voluto così.

Il dolore. Dobbiamo imparare a parlarne e scriverne con più pudore. Dobbiamo avvicinarci a chi soffre a piedi scalzi, come fece Mosè davanti al Roveto ardente. L’ammalato è terra sacra. Il disabile è terra sacra. Se ogni uomo è un mistero, l’uomo che soffre è un mistero avvolto nel più inaccessibile dei misteri. Fabo, fratello, stiamo soffrendo. Con te, per te. Il mondo senza di te è più povero. E noi ci ritroviamo senza fiato. Avverrà così per tutti, anche se non in modo meno traumatico. La nostra fragilità prenderà il sopravvento, e verrà la morte. Nella vita cambieranno tante cose, non il bisogno e la capacità di amare e di essere amati. Fino al momento supremo, e oltre.

Voglio dirti ancora un volta che tu sei stato e sei unico. E che la dignità umana non viene meno quando il corpo si ribella e smette di obbedirci. Questa è una menzogna. Al contrario, cresce a dismisura. La dignità non muore nemmeno con la morte. Ti hanno portato in Svizzera. A morire. La tua sofferenza e la tua morte ci riguardano.

Tu ci appartieni, Fabo. Appartieni e me come io appartengo a te. La tua storia merita rispetto. La tua vita merita rispetto. La tua malattia merita rispetto. La tua morte merita rispetto. E dolore. Perché non possiamo lavarci le mani a buon mercato davanti al mistero del dolore. Non possiamo volgere il nostro sguardo altrove. Non possiamo nasconderci dietro il paravento della ‘buona morte’. Non una buona morte, ma una buona vita, una vita buona comunque, avresti meritato. Ti assicuro che abbiamo imparato la lezione, che non smettiamo di impararla. Abbiamo capito che le persone come te nell’agenda politica meritano il primo posto.

Fabo, il rispetto dovuto

di Giuseppe Savagnone – Avvenire martedì 28 febbraio 2017

Quando è in gioco il mistero della morte di un uomo, il primo atto di rispetto sarebbe quello di tacere.

Ma, nel circuito mediatico-politico, in cui tutte le forme di pudore sono sistematicamente travolte dalla logica dello spettacolo, anche questa dolorosa fine è diventata, prima ancora di verificarsi, una notizia, un evento pubblicizzato a gran voce su tutti i mezzi di comunicazione e strumentalizzato ideologicamente per sostenere una tesi precostituita, la legittimità del suicidio assistito e, in ultima istanza (perché è a questo che esplicitamente si tende), dell’eutanasia. E forse già questo clamore, a prescindere dalla validità o meno della tesi in questione, potrebbe indurre a diffidare del concetto di “dignità della vita e della morte” a cui i sostenitori dell’eutanasia si rifanno anche in questa occasione. Per quanto ci riguarda, noi qui non abbiamo nulla da dire sulla tragica scelta di questa persona.

La visione cristiana a cui cerchiamo di ispirarci ci ha insegnato che non abbiamo alcun diritto di giudicare, noi, un essere umano, anche quando i suoi comportamenti non corrispondono alla nostra idea di bene e di male. Vogliamo invece fare qualche considerazione sui toni indignati che traboccano dai titoli e dalle argomentazioni di diversi giornali. In essi si insiste con incredula costernazione, sul fatto che il nostro Paese è rimasto l’unico, del “civile Occidente”, a giudicare illecita l’interruzione artificiale della vita di una persona, probabilmente – si dice – per il persistere di una tradizione di matrice cattolica. Ancora una volta, prescindiamo dal valore intrinseco della rivendicazione, per limitarci a constatare la debolezza di questo motivo di scandalo. È vero. L’Italia forse è l’unica democrazia matura a non ammettere alcuna forma di eutanasia. Ma è rimasto anche l’unica a non alzare muri per bloccare l’ingresso dei migranti e a continuare a spendere soldi per cercare di salvare vite umane dalla morte per annegamento.

Addio Fabio, non siamo riusciti a darti nessuna ragione per vivere

di  Antonio Sanfrancesco  Famiglia Cristiana 27/02/2017

Ma la morte di un uomo non può mai essere utilizzata per combattere battaglie politiche. Né può essere strumentalizzata all’interno del dibattito politico e parlamentare sulla legge sul testamento biologico che, va ricordato, è cosa ben diversa dall’eutanasia.

In Parlamento le varie forze politiche stanno discutendo sulla natura e i limiti dell’idratazione e alimentazione artificiali e sulla possibilità di raccogliere una volontà preventiva e revocabile da parte del paziente di non sottoporsi all’accanimento terapeutico rendendo meno problematica la decisione finale del medico e togliendo ai familiari responsabilità improprie. Autorizzare il suicidio assistito è un’altra cosa.

La morte di un uomo è sempre una sconfitta. Nel caso di dj Fabo non perché l’Italia non gli ha dato la possibilità di morire ma perché nessuno di noi è stato in grado di offrirgli una ragione per vivere e andare avanti. Da qui, forse, bisogna ripartire: di fronte al dolore, al limite, alla sofferenza una società davvero civile non dà l’eutanasia ma si sforza di dare un senso alla fragilità.

L’eutanasia non sia risposta al dolore 

di Eugenia Roccella L’occidentale 27/02/2017

Uniamo il nostro dolore a chi voleva bene a Dj Fabo. Aiutare a morire chi, per disperazione, malattia, o qualunque altro motivo, voglia porre fine alla propria vita, vuol dire costruire una società da cui fratellanza e solidarietà sono escluse. L’angoscia e la solitudine sono sentimenti che non si possono eliminare dall’esistenza, ma solo affrontare, stringendosi nell’amore e nella solidarietà. Se la risposta al dolore umano diventa il suicidio assistito ogni forma di disperazione potrà essere risolta con l’eutanasia: la morte di un figlio è un dolore meno atroce della tetraplegia? La depressione profonda è meno grave della cecità?”.

Il giornalismo davanti alla morte

Corrispondenza tra Paolo Benanti  francescano e Francesco Occhetta, gesuita

pubblicato  su www.ucsi.it unione cattolica della stampa italiana 27/02/2017

Caro Francesco, 

non riesco a non smettere di pensare a come i media stanno trasmettendo la notizia della morte di Dj Fabo.

Non voglio qui aprire una discussione sul tema dell’eutanasia o della morte assistita: penso che ora ci si chieda di sospendere le discussioni sul gesto e contemplare in silenzio il dolore e la sofferenza umana, rimandando ad altra sede le discussioni etiche-politiche. Ma proprio questo profondo senso di rispetto per l’altrui sofferenza e dolore mi spinge a questa riflessione sui media e sullo stile che stanno impostando per “comunicare” questa notizia. Si lo so, me lo dici sempre, la comunicazione e il giornalismo non sono e non possono essere mai neutrali, però nel come c’è un perché. In altri termini è la prospettiva di fondo quella che mi preoccupa di più.

Guardando il flusso mediale che si sta scatenando, pieno di banalità, sensazionalismi e inopportune allusioni politiche e partitiche, sembra che i media non riescano a guardare la vita che nella prospettiva di Søren Kierkegaard: “Quando la morte è il più grande pericolo, si spera nella vita; ma se si vede un pericolo ancora più tremendo, si spera nella morte. Quando dunque il pericolo è così grande che la morte è diventata la speranza, la disperazione è la non speranza di non poter nemmeno morire”.

Ma questo modo dice che l’unica cosa da cercare, celebrare e cercare è l’angoscia e il non senso che appartiene al nostro essere. Allora le notizie, ciò che merita essere sulle pagine dei nostri giornali non saranno altro che prove e dimostrazioni del nulla, del non senso e della disperazione. Da francescano, caro Francesco, mi chiedo come possiamo fare perché le tristezze e i fatti della vita possano essere in realtà una testimonianza e una celebrazione dell’umano.

Come far emergere quella necessaria ricerca di senso che ci caratterizza e che ci urge? Come dire la nostra fragilità, il male del mondo senza scordare, citando san Franesco, che la vita è Laude? Che la vita, cioè, prima che disperazione, è un’offerta di senso a un essere contingente e fragile come l’uomo che ha in sé un anelito insopprimibile di infinito?
Dj Fabo non c’è più, ma il suo grido è un grido umano, un grido di senso, un gemito di umanità che non può essere solamente osservato nella prospettiva della tolleranza.

Allora, Francesco, ti chiedo come far si che i nostri contemporanei possano tornare a scoprire il senso anche della morte così come ha fatto il serafico padre Francesco: “Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,da la quale nullu homo vivente po’ skappare….”?

Caro Paolo, 

sono rimasto colpito anche io. Parto da una premessa che ci colloca nella fede: noi crediamo che la morte non distrugge il corpo che vive sotto la carne. Quello appartiene a Dio. C’è un principio di speranza che tiene accesa la nostra vita. Detto questo il punto per me è come il giornalismo, che respira della cultura che lo nutre, tratta la volontà di morire come il fine possibile della vita.

Questo è uno spazio sacro. Davanti a temi così anche il silenzio e la meditazione servono. Non è necessario dover dire tutto sul tema del fine vita quando la pietà e l’emotività prevalgono giustamente su tutto il resto. Ho bisogno di più tempo per riflettere sul caso concreto del Dj Fabo. Mi spaventa però assurgere a regola un caso concreto. Se facciamo diventare cultura diffusa un diritto soggettivo senza un dibattito pubblico che ponga al centro su quali valori condivisi ci dobbiamo trovare. Qui trovi qualche riflessione sulla morte ‪http://www.francescoocchetta.it/wordpress/?p=59829 che ho scritto tempo fa.

Ci stiamo avvicinando alla Quaresima, tutto quello che tocca il fuoco dell’amore di Dio diventa cenere che risorgerà. Sarebbe importante collocare il tema della morte e del morire ricentrandolo sulla responsabilità che una società ha di prendersi cura di chi sta male. a volte quando smettiamo di essere efficienti e utili e ci ammaliamo non serviamo più. Questo è il fine di una società? Il giornalismo ha poi una finalità: quella di fare servizio pubblico che costruisce l’opinione pubblica. Su quali fini (sociali) lo sta facendo? Per quale ragioni positivizza tutto senza ripensare al significato dei principi costituzionali che reggono la democrazia? Perché si mischia il fatto e la valutazione etica senza capire dove finisce il rispetto di una storia di dolore e iniziano le valutazioni morali e antropologiche?

La dignità umana va difesa in una cultura, non basta a se stessa, dipende da un Altro e ha bisogno di una comunità per crescere, in quanto è portatrice di diritti innati e indisponibili, che lo Stato ha il compito di riconoscere e promuovere, difendere e prendersene cura.

per approfondire:

http://www.francescoocchetta.it/wordpress/?p=61569

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