Eutanasia e vero senso del vivere e del morire

Pubblichiamo dal Sito della Diocesi la riflessione di don Enrico Trevisi, teologo morale e parroco di Cristo Re, sulla dolorosa vicenda di Dj Fabo che si è recato in Svizzera per porre fine alla propria esistenza.

In queste ore mentre riprende il dibattito sulla legge circa le Dichiarazioni anticipate sul fine vita si riaccende anche la richiesta pressante di una legge sull’eutanasia. La morte in Svizzera di Dj Fabo ha rimesso in moto la polemica politica. Ma su questo terreno non vorrei addentrarmi. Vorrei che si parlasse con rispetto di Fabiano (preferisco il suo vero nome, non quello d’arte). Lui era pieno di sogni, di successi, di affetti. Un tragico incidente lo fa piombare nell’oscurità, fisica e spirituale: “La mia vita non ha più senso”.

Il rispetto si fa preghiera per il mistero della vita e della morte. Per tutti coloro che si trovano nella periferia esistenziale del non-senso. Ma si fa anche sollecitudine a trovare nuove strade di prossimità per condividere quei brandelli di senso che abbiamo intravisto e che vanno umilmente condivisi.

Non parlo di Fabiano (che non ho conosciuto personalmente), ma di Franco che pochi minuti fa è spirato all’hospice circondato dalla sua famiglia: stavamo dicendo un’Ave Maria mentre ha riaperto gli occhi e ha varcato la soglia verso quella meta per la quale solo balbettiamo nella fede.

Anche se anziano e malato la sua vita era ancora piena di senso, lo è stata fino all’ultimo. La sua fede semplice e retta, coltivata fin da quando era bambino, mi aveva rassicurato in questi mesi in cui ci siamo frequentati e nei quali mi ha narrato la sua storia: come operaio in una vetreria, e poi studente privatista, fino a diventare maestro… e poi marito, padre, nonno. Nella gratuità di quei racconti ho colto la percezione del senso della vita che trabocca anche quando l’efficienza e la produttività si sono spente.

Ho colto questo: la capacità di vivere le varie stagioni, modulando la ricerca di senso.

Io mi domando se sarò capace, quando arriverà il mio turno di inefficienza, di disabilità… e resto pensieroso. Anch’io rischio di ammalarmi di affanni che mi portano ad identificare il senso di me con i miei successi, le mie prestazioni, le gratificazioni che vengono dal lavoro, dagli affetti, dall’esperienza che porta a godere della musica e dell’arte, della compagnia e della propria libertà.

In Fabiano mi vedo nella mia incapacità di cogliere la mia identità che va oltre le prestazioni e le attività (pur così importanti per ciascuno di noi). In Franco mi rivedo capace di risignificare gli incontri, i giorni, le novità inaspettate, sia quelle che allietano come quelle che poco alla volta portano alla morte. Colgo un’eccedenza di senso del vivere e del morire che non si restringe alla logica dei consumi, del piacere, delle pur nobili attività.

Sono pensieri che mi spingono a restare umile. A non voler impormi con la forza, ma che inducono tutti ad abbassare i toni, a stringerci e ad osare anche discorsi seri sul significato del vivere, dell’amare, della vita e della morte. E di ciò che c’è oltre la morte.

Nessuno di noi sa come si ritroverà nel momento del fare i conti con lo scadere dei suoi giorni, con la malattia che infierisce, con la tragedia della disabilità che blocca ciò che ha colorato i propri sogni. Penso che dobbiamo guardarci (per riprendere un’immagine di papa Francesco usata per altri ambiti) da una fredda morale da scrivania che regola senza accompagnare, che giudica senza amare, che prescrive senza portare i pesi. Ma penso anche che dobbiamo vigilare sulle scorciatoie che portano ad abbandonare chi fatica a trovare senso ai suoi giorni di dolore. Quanto è rischioso pretendere di regolamentare l’accesso alla morte: quante persone vulnerabili – e potremmo essere anche noi – si troverebbero esposte, in qualche momento triste di solitudine, ad esigere in un’illusione di libertà di volere la propria morte. Di anticipare la propria morte.

La pretesa di fare dei medici dei semplici esecutori di volontà (del paziente, dei parenti, dei giudici…?) a cui devono adeguarsi, spegnendo la loro scienza e coscienza, mi indispone: si rischia di trattarli come fossero dei meccanici che ricevono ordini senza cogliere la specificità che vede in essi persone che si dedicano a curare persone, in una relazione che non può scadere nel solo dare fredde prestazioni.

Più che di una legge sull’eutanasia abbiamo bisogno di riabilitare percorsi che ci aiutano a confrontarci sul senso della vita. Ci sono discorsi importanti che non si fanno più ai figli; ci sono domande di senso che le si vuole restringere al privato e dunque alla solitudine. Come se la questione della gioia vera e del senso della vita anche dentro la realtà della vecchiaia (o della disabilità o della malattia) non fossero possibilità per tutti di cogliere cosa conta davvero anche nella propria vita. Non rinchiudiamoci in un mondo di illusioni e di apparenze. La questione vera è quella del Paradiso.

La vecchiaia, la disabilità, la malattia non sono solo materie per i medici. Le aspettative che oggi la scienza pone non dilatano solo nuove speranze di guarigione ma anche processi difficili una volta impensabili, come gli stati vegetativi persistenti o gravissime disabilità. Rimane la questione dell’accettare la morte che viene, dell’evitare accanimenti terapeutici, delle terapie contro il dolore… Ma tutto questo non si risolve soltanto con nuove leggi e nuove normative: abbiamo estremo bisogno di autentiche relazioni personali in cui inventare nuove forme di prossimità, in cui ci facciamo carico gli uni degli altri. Comprese le rabbie. Le paure. Con rispetto. Con la compassione che intravvediamo nel Samaritano.

Don Enrico Trevisi

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